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Open Source vs COVID-19

I princìpi di open source e open science stanno svolgendo un ruolo chiave nella lotta al COVID-19, la pandemia più trendy del momento.

Questo è un argomento serio: unisce una delle tragedie del nostro tempo a ripercussioni etiche, economiche e sociali e suggerisce profonde riflessioni. Nonostante io per indole naturale cerchi sempre di sdrammatizzare tutto, ho difficoltà a parlarne in maniera leggera.

Medicina e ricerca sono campi in cui la condivisione di conoscenza è di vitale importanza e allo stesso tempo continuamente minacciata da interessi privati. La gestione aperta dei nostri dati nella prospettiva della tutela di libertà personali è un tema altrettanto caldo. Aggiungiamoci una recessione globale ancora sul nascere, ripercussioni culturali, sociali e demografiche tutte da comprendere. Ecco che siamo di fronte a un evento che definirà la forma del nostro futuro.

In mezzo a così tanto da elaborare, per fortuna ci sono anche timidi spunti che fanno ben sperare.

Le app anti-COVID e l’open source

Da italiano che risiede all’estero, ho dovuto rispondere centinaia di volte a domande relative alla diffusione così rapida e aggressiva del virus in Italia. Di solito menziono l’età media della popolazione, la scarsità di informazioni da parte dei paesi “pionieri”, la probabilità che il ceppo europeo sia più aggressivo.

Una certa dose di responsabilità sta anche nella reazione più o meno civile della popolazione, almeno stando alle reazioni accorate nostri sindaci. Non sapete quanti video come questo mi sono dovuto sorbire:

A quanto pare il sindaco di Delia spopola su TikTok in Cina

Appena ho saputo che l’app “Immuni” era stata rilasciata, mi sono fiondato a controllare quanto buon senso sia stato impiegato nel suo sviluppo. Insomma, per vedere quanto open source ci fosse in un’app creata per tracciare i contatti di un’intera nazione. Non vorranno di certo che ci si fidi di software proprietario per una cosa del genere!

Spunta fuori che sì, l’open source ci ha messo il suo benefico zampino, non che questo abbia aiutato la sua diffusione. Sono veramente in pochi ad averla installata e c’è anche stata una piccola dose di polemica a base di stereotipi di genere. Anche in Australia hanno sviluppato un’app con funzionalità simili (e altrettanto scarso successo) e hanno in qualche modo rilasciato i sorgenti ma con licenza proprietaria… Un inedito “Italia batte Australia”!

Questo confronto tra le mie due patrie mi ha spinto a dare uno sguardo alla scena globale, con risultati interessanti. Molti dei paesi che hanno sviluppato app per il tracciamento di casi di COVID-19 in tutto il mondo hanno fatto uso di tecnologia aperta. Qui la lista completa su wikipedia.

Open Source, Biohackers e cene a casa

Se mai in questa vicenda ci fossero lati positivi, le chiavi di volta semberebbero essere condivisione e accesso ai dati. Intendo a parte l’evidente risparmio di non dover andare a cena fuori.

Strumenti che permettono di democratizzare e decentralizzare lo studio della enorme mole di informazione a disposizione dell’umanità. Brrr, ho anche letto il termine “biohacker”!

Sfruttando l’accesso a dati reperibili online, sono centinaia se non migliaia i progetti sviluppati dalla comunità per analizzarli e studiarli da vari angoli. In questa pagina ad esempio potete visualizzare l’impatto (benefico) della pandemia sulla qualità dell’aria. Altrove si può seguire lo sviluppo di ventilatori open source oppure di mascherine stampate in 3D. Qualcuno ha catalogato infinite liste di progetti più o meno utlili tra mappe, web apps, applicazioni per Android e iOS, eccetera eccetera e ancora eccetera.

L’uso di tecnologie open source non è che l’inizio. L’ispirazione porta alla creazione di una vera e propria Open Source Science basata sul rilascio di proprietà intellettuali. Ne trovate qualche esempio qui e la teoria nella Open COVID Pledge, supportata da una lunga lista di nomi importanti.

Per facilitare ulteriormente il compito di accedere a tali dati, IBM lancia i “COVID notebooks”. Probabilmente neanche i più assetati di big data potranno mai contemplare tutta la vastità di informazioni disponilibili e variamente correlate o correlabili.

Effetti collaterali

Accennavo alla migliorata qualità dell’aria non a caso. Grazie a questo fermento mi sono trovato a discutere di open culture e temi progressivi con molti australiani, che rappresentano una demografica “difficile” in quanto pesantemente consumisti. Evviva le generalizzazioni. Questa pandemia a lungo termine potrebbe ispirare effetti imprevedibili, alcuni dei quali positivi.

Mappa che mostra la diminuzione di inquinamento globale

Cosa succederebbe se l’industria del petrolio non riuscisse più a risollevarsi dopo questa batosta, o se il trasporto elettrico raggiungesse critical mass anche grazie a un pizzico di millenarismo? Se riscoprissimo il valore del nostro più immediato contesto sociale? L’istinto di conservazione, tra tutte le possibili energie catalizzatrici, potrebbe essere quella necessaria a promuovere il capitalismo etico del futuro?

Se il libero accesso alla conoscenza supportasse politiche non esclusivamente spinte da antiquate logiche di mercato? Il Clean Energy Council Australia lo chiama “Clean Recovery” e io cazzo voglio farne parte.

Io dall’anno scorso lavoro nelle energie rinnovabili, cosa che per me era da sempre una specie di piccolo traguardo nella mia carriera. Questo, unito al mio passato a ravanare nella comunità open e al fatto che ormai sono uno splendido quarantenne (cit), mi fa sentire particolarmente predisposto a fare discorsi che sfiorano nello sbrodolamento etico. Sopportatemi.

Quali che siano le idee individuali di ciascuno di noi, ciò che faremo nei confronti di questa sfida globale, anche semplicemente discutendo e condividendo il nostro punto di vista con chi non ne è cosciente, ha e avrà un importante significato storico su cui fin da adesso io proietto il mio giudizio.

Nel frattempo a causa di tutto questo, tornate a beccarvi i miei sproloqui

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